giovedì, luglio 19, 2007

In ricordo di Paolo Borsellino




Nelle Pause durante un interrogatorio, un collaboratore di giustizia disse al giudice..:"Dottore se la mafia non ci fosse bisognerebbe inventarla, la mafia è stata spesso il paravento dietro il quale voi persone normali, avete nascosto tante vostre vergogne".

1 commento:

Raffaele Isidro Parodi ha detto...

Castello con vista su strage
In un grande castello liberty che domina la città di Palermo, otto anni fa operava un nucleo dei servizi segreti. Due boss di Cosa Nostra telefonarono agli agenti, negli anni delle stragi. Che cosa si dissero non si sa, ma la geografia rende
di Enrico Deaglio

Nel Dizionario dei sinonimi del Gabrielli, «anacronistico» risulta strettamente legato, anche se non identico, a «inopportuno». Ma i due aggettivi, nella storia che stiamo per raccontarvi, si rafforzano. Perché, davvero, le vicende del Castello Utveggio e dei suoi servizi segreti sono di altri tempi (oggi, una storia sull’onda del tempo dovrebbe occuparsi piuttosto dell’emergenza pedofilia, dell’emergenza discoteche) e risultano disturbanti, nel bel mezzo del rito che tutti aspettavamo da tempo: la celebrazione della fine della mafia.
Con stato d’animo, dunque, perplesso, vi propongo ugualmente questa storia. Di un castello color rosa bon bon costruito sul monte Pellegrino, che ha sulla città di Palermo una vista simile all’occhio di Dio. Di un castellano che aveva il vezzo di farsi cambiare i numeri telefonici, perché ne voleva sempre uno che contenesse il 333; o perlomeno il 33. E poi di altri telefoni e telefonini, piccoli aggeggi che non muoiono mai, ma che lasciano imperitura memoria – bave elettroniche, date, orari – anche quando sono stati ormai buttati o sostituiti con modelli più moderni. I telefonini sono oggi la cosa più simile al Dna: come questo, attraverso catene di aminoacidi, racconta la biografia del genere umano, i telefonini lasciano sempre scritta la loro autobiografia.
La storia ha uno spunto dieci giorni fa, quando il TG3 Rai siciliano e il Giornale di Sicilia (il quotidiano di Palermo) diffondono una breve notizia dal titolo: «Quando i boss telefonavano ai Servizi». Vi si parla di tabulati agli atti di due inchieste – quella della procura di Caltanissetta sui «mandanti occulti» degli attentati contro i giudici Falcone e Borsellino e quella della procura di Palermo nota come «sistemi criminali» e relativa ai presunti intrecci tra Cosa Nostra, uomini delle istituzioni e massoneria deviata. Lì, nella monumentale massa di documenti, sono custodite le tracce delle telefonate di due importanti mafiosi, Giovanni Scaduto e Gaetano Scotto. Chi avevano chiamato, tra i numerosissimi contatti conservati nell’Empireo dalla sovrana Sip ora Telecom? Avevano chiamato, il primo alla fine del 1991 e il secondo nell’estate del 1992, due utenze mobili intestate al Cerisdi, un Ente regionale (Centro ricerche e studi direzionali). Le utenze mobili, però – scrive il quotidiano – «erano in effetti estranee al Cerisdi e sarebbero state relative a un nucleo dei servizi segreti, operante in quegli anni presso il Centro e successivamente disciolto».
La notizia, benché breve, era di quelle succose. Ma, stranamente, nessuno l’ha ripresa: né altri giornali per saperne di più, né i magistrati per confermarla o per smentirla. Ci sono molte e solide ragioni per questo disinteresse: la prima è che le due inchieste, in anni di indagini non hanno portato a nulla, se non a vaghe indicazioni non provate; la seconda è che il tempo dei sospetti – dei Mandanti, dei Grandi Vecchi, dei Terzi Livelli, dei Pupi e dei Pupari, della Piovra – sembra davvero essere passato. In questi giorni Palermo ospita la conferenza mondiale dell’Onu sulla criminalità, alla presenza di Kofi Annan, di decine di capi stato e di ministri della giustizia da tutto il mondo e gigantografie affisse dal Comune dichiarano perentorie: «Il mondo ha un sogno: imitare Palermo». Può apparire bizzarro, ma in fin dei conti, anche questa tesi è sostenibile. La città che si era trasformata in mattatoio; la città «irredimibile», secondo la sentenza di Leonardo Sciascia, la matrigna che aveva ucciso uno dopo l’altro i vertici della polizia, della politica, dei carabinieri, della magistratura, oggi ha cambiato volto. Si uccide molto poco, sicuramente meno che in molte altre città italiane; lo spettrale centro storico distrutto dalle bombe della seconda guerra mondiale e mai ricostruito – il brodo di cultura in cui la miseria creava delinquenza e la delinquenza creava mafia – oggi comincia a vedere alcune strade ingentilite. Persino piazza Magione – la lugubre piazza d’armi simbolo dell’indicibile abbandono – oggi è coperta da un (provvisorio) manto d’erba tagliata all’inglese. Per cui, i funzionari che da tutto il mondo sono venuti qui per parlare di strategie globali antimafia, possono ben sognare di imitare Palermo e paragonarla, per esempio alle sempre più infernali Medellin o Bogotá in Colombia.
Sette anni fa, qui a Palermo ancora si decideva chi uccidere e dove fare stragi; oggi tutti i colpevoli stanno all’ergastolo: la loro intima bestialità e ignoranza li aveva portati a uccidere e a poter pensare di dare l’attacco allo Stato, ma lo Stato li ha fermati e puniti. Restava il dubbio che quegli uomini di così basso livello culturale avessero potuto farla franca per così tanto tempo. Ma la procura di Caltanissetta oggi, e quella di Palermo domani, hanno messo il loro sigillo: hanno fatto tutto da soli. È la stessa storia di cinquant’anni fa: migliaia di persone si sono rotte le corna per cercare i mandanti di quel Salvatore Giuliano che, armato di fucili e della seconda elementare aveva pensato di poter trattare addirittura con gli Stati Uniti d’America. E non hanno trovato niente: Turiddu evidentemente aveva fatto tutto da solo.
Per questi motivi – «anacronismo» e «inopportunità» – nessuno ha dato importanza a quei tabulati telefonici. Avranno sbagliato numero: a chi non capita?

IL?GESUITA?ROSSO. Ma mi restavano alcune curiosità. La prima era: che cos’è il Cerisdi? Questa è stata facile da appagare: basta andare sul sito www.cerisdi.it. Qui mi appare il volto di padre Ennio Pintacuda, il suo nuovo presidente. Siciliano originario di Prizzi, gesuita, professore con formazione americana, Ennio Pintacuda è uno degli uomini che hanno fatto la storia recente di Palermo a partire dagli anni Ottanta, quando insieme a padre Bartolomeo Sorge animava il centro «Pedro Arrupe» della Compagnia di Gesù, il cui Generale aveva scelto di intervenire a Palermo allo scopo dichiarato di formare una nuova classe dirigente, ma soprattutto di combattere la mafia. Pintacuda divenne un bersaglio e gli venne assegnata un’agguerritissima scorta: fu il primo uomo in clergyman in Italia a salire in macchina e a camminare per la strada scansando i mitra dei suoi angeli custodi. Decisamente votato alla politica, Pintacuda ha sempre avuto ruoli importanti di consigliere, e anche litigi con i suoi consigliati. Un tempo «prete rosso», oggi «in quota Polo», Pintacuda dirige il Cerisdi, «scuola di eccellenza» votata alla formazione di competenti amministratori e a coltivare rapporti tra la Sicilia e il Mediterraneo: corsi di specializzazione, borse di studio (una è intitolata a Giuseppe Bonsignore, il funzionario della Regione ucciso dalla mafia), conferenze e dibattiti costituiscono l’attività del Centro. Detta così, il centro non sembra discostarsi troppo dalle decine di enti e istituzioni regionali che si prefiggono gli stessi fini e che alimentano i mastodontici bilanci della Regione Sicilia.
Ma quello che fa la differenza, o meglio l’eccellenza, del Cerisdi, è la sua sede: uno dei luoghi più belli di Palermo, il castello Utveggio in cima al monte Pellegrino. Erano gli anni Venti e Palermo assaporava ancora qualcosa del suo periodo di splendore; il cavalier Michele Utveggio, grande costruttore nativo di Calatafimi si innamorò dell’idea di costruire un grande albergo ristorante nel punto più panoramico della città, il Primo Pizzo del monte Pellegrino, a 346 metri a strapiombo sul mare, poco distante dal santuario di santa Rosalia. Era un’impresa abbastanza temeraria, ma l’uomo, che aveva anche costruito un cinema teatro in piazza Politeama e lo stadio della Favorita, mise sul tavolo i propri soldi e lo fece, in soli cinque anni: utilizzò il moderno calcestruzzo per una costruzione di tre piani di improbabile color rosa confetto, chiamò i migliori architetti per un sontuoso arredamento liberty, dotò il castello di propri serbatoi d’acqua e di una strada privata d’accesso e inagurò i locali a metà degli anni Trenta. Ma tutto andò a ramengo allo scoppio della guerra: il castello, requisito dalle autorità militari, divenne la sede della contraerea prima fascista, poi tedesca (dopo lo sbarco del 1943) e uno degli obiettivi prediletti dei devastanti bombardamenti alleati. Caduto e abbandonato, Castello Utveggio venne saccheggiato dai palermitani che vi portarono via tutto quello che poterono.
Povero scheletro, così rimase per trent’anni dopo, quando se lo comprò la Regione Sicilia. Se lo prese per primo, alla fine degli anni Ottanta, il prefetto Riccardo Boccia, uno degli ultimi Alti Commissari, a mezzadria con il ministero per lo Sviluppo del Mezzogiorno. Poi venne nominato presidente il prefetto Vincenzo Verga, anche lui ex Alto Commissario e poi seguirono altri notabili siciliani, tra cui l’ex segretario della Camera del Lavoro Luciano Piccolo. Nel 1987 Bettino Craxi, in occasione del congresso socialista, vi fece illuminare un enorme garofano visibile da tutta la città; nel 1995 vi dormì Giovanni Paolo II, e da allora la sua suite non venne più toccata. Il Cerisdi organizzava ricerche sulla buona amministrazione, ospitava convegni, vagheggiava l’informatizzazione della pubblica amministrazione.
Ma fin dall’inizio si installò anche qualcun altro. Un piccolo nucleo del Sisde, il servizio segreto civile, assolutamente riservato e dotato delle migliori attrezzature per osservare e ascoltare, dall’alto del monte, la città che sotto, intanto, si stava scannando. Erano uomini di fiducia degli ex Alti Commissari, un misto di civili, carabinieri e poliziotti. Avevano ponti radio, apparecchiature molto sofisticate di controllo delle comunicazioni e un sistema telefonico predisposto per centinaia di circuiti fissi, una specie di mega centralino in grado di smistare le chiamate di una piccola città. La riservatezza del luogo, i controlli effettuati sull’unica strada di accesso, la eccezionale panoramica fecero di Castello Utveggio un posto tanto sconosciuto quanto importante nella vita della città. Poi successero le stragi del 1992, il questore di Palermo Arnaldo La Barbera provò a vederci chiaro e in una notte i tecnici della ditta Ericksson, che avevano montato il tutto, smontarono altrettanto velocemente il tutto. (Sembra un film, vero? I tre giorni del Condor. E come nel film, anche qua ci sono un po’ di omicidi sparsi, che però non fanno l’oggetto di questa storia).

PIACERE, PROFESSOR?MUSCO.?Ma non avete ancora conosciuto il vicepresidente del Cerisdi, dal 1988 al 1992. E vi siete persi molto. Il professor Alessandro Musco, cinquantenne di Siracusa, cattedratico di storia medievale presso l’Università di Palermo, animatore di vari centri studi dai nomi esoterici, ha diverse caratteristiche. Molto intelligente, a detta di tutti. Gran massone, a detta di tutti. Uomo di snodo tra il mondo degli affari, la mafia e la politica secondo altri. Come capo di gabinetto dell’ex presidente della Regione Sicilia, Rino Nicolosi, messo sotto accusa nelle indagini sugli appalti, la mafia e le spartizioni tra i partiti al tempo delle grandi torte di dieci anni fa (allora non si diceva: il mondo ha un sogno: imitare Palermo, ma molti lo praticavano), il professor Musco ha aperto le chiuse di fronte ai diversi giudici che l’hanno interrogato. Ha spiegato che, come il Cerisdi, c’erano decine di enti inutili, dai bilanci inesistenti, da cui lucravano tutte le forze politiche. Ha raccontato come gli ambientalisti siano stati tacitati con consulenze, i sindacati con benefici, tutte le varie correnti e sottocorrenti dei partiti abbiano avuto il proprio tornaconto, presentando se stesso come un vero mediatore tra diversi equilibri.
In centinaia di pagine di verbali, tutto il mondo politico viene sapientemente vivisezionato, dal professor Alessandro Musco, che manda messaggi a tutti. È probabile che ne sentiremo ancora parlare, perché è oggi ancora attivissimo in politica, la politica nuova: Ccd, con occhio all’Udeur e comunque porta sempre aperta a tutti. Di lui si può raccontare un vezzo: ci tiene molto a che le sue utenze telefoniche comprendano le cifre 333 o 33, numeri importanti per la massoneria. E riesce a smuovere mezzo mondo perché il suo desiderio sia esaudito. Finora c’è riuscito.

I DUE?MAFIOSI?TELEFONISTI. E Giovanni Scaduto, chi è? Citato dal Giornale di Sicilia come uno dei due boss mafiosi che telefonarono al Cerisdi, sta in questo momento scontando una condanna all’ergastolo. Membro fin da ragazzo del Gotha di Cosa Nostra, rispettabile bancario di Bagheria, è stato arrestato sette anni fa per una strage di mafia nel suo paese e condannato per l’omicidio di Ignazio Salvo. Faceva parte, secondo la sentenza di un gruppetto che si appostò nel giardino della sua villa e lo freddò mentre si apprestava a uscire a bordo della sua Mercedes 190. Era il 17 settembre 1992. Prima di lui, quell’anno a Palermo erano caduti Salvo Lima, il proconsole di Andreotti in Sicilia, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino: Cosa Nostra, sotto la direzione di Salvatore Riina, si era così vendicata dei giudici che la avevano messa alle corde e dei politici che, secondo loro, l’avevano tradita. Appena finita l’estate venne il turno di Ignazio Salvo, che dei quattro era il meno conosciuto, ma sicuramente il più ricco e potente. Grande supporter della corrente andreottiana, governava da decenni le riscossioni delle tasse in tutta la Sicilia, funzione che aveva fatto di lui una specie di ministro del Tesoro e delle Finanze della Regione. Era un mafioso, naturalmente, e di lombi mafiosi, proveniente dal piccolo paese di Salemi, ma talmente potente che nel 1982, quando il governo di Roma si permise di mettere in discussione il meccanismo di riscossione delle tasse nell’isola, provocò una crisi di governo. La sua azione fu efficace: in 48 ore ebbe soddisfazione.
Si scoprì (una buona parte dei membri della banda spifferò tutto) che le chiavi per entrare in giardino le aveva fornite il genero, uno stimato medico di Palermo, Tani Sangiorgi, che così contava di prendersi un po’ di eredità e che gli altri erano componenti della migliore squadra di killer agli ordini dello zio Totò. Una buona parte del lavoro investigativo venne fatta sui loro telefonini; ne avevano parecchi e diversi erano «clonati», cioè più difficili da intercettare. Giovanni Scaduto, poi, dal suo 0337.891773 chiamava anche dei telefonini supersegreti forniti a sconosciuti direttamente dalla Sip di Roma e si scoprì che un giorno, più o meno un anno prima dell’omicidio, aveva chiamato il Castello. Una sbadataggine, probabilmente, ma che messa insieme al «traffico telefonico» del ricevente portava ad altri numeri, ad altre persone, ad altre date. E il ricevente era uno di quelli che, per conto del Sisde, dal Castello teneva occhi e orecchie aperte sulla città.
L’altro telefonino che chiamò al Castello, questa volta nell’estate del 1992, apparteneva invece a Gaetano Scotto, mafioso pure lui, ma poco conosciuto. Si occupava molto degli affari di Cosa Nostra in Emilia Romagna e nella sua veste di emissario era venuto in contatto, oltre che con i numerosi referenti dell’organizzazione in Regione, anche con personaggi dell’eversione nera. Più conosciuto di lui, alle cronache, suo fratello Pietro. Era un operaio della Elte, una ditta degli appalti Sip. Venne accusato, per la strage in cui morirono Paolo Borsellino e la sua scorta, di aver fornito agli attentatori la notizia che aspettavano: il magistrato stava arrivando, quel 19 luglio 1992, dalla sua villetta di Villagrazia di Carini in via D’Amelio, a trovare l’anziana madre. Come aveva fatto a scoprirlo? Secondo l’accusa, in virtù delle sue competenze professionali, era riuscito a deviare le comunicazioni della casa palermitana dei Borsellino a un’altra utenza, in un appartamento del palazzo di fronte. I giudici non ritennero però sufficienti le prove a suo carico e lo condannarono solo per associazione mafiosa. Il fratello Gaetano, invece, per la strage di via D’Amelio venne condannato all’ergastolo. Ma da quell’estate aveva fatto perdere traccia di sé.
K. NON?C’ENTRA. Dovrei ora citare Franz Kafka: «Era sera quando K. arrivò. Il villaggio era sommerso dalla neve. Non si vedeva nulla della collina del Castello». Ma non ne vale la pena, perché il Castello di Kafka era luogo e non luogo insieme, aspirazione del viandante e scoperta, sempre più dolorosa, della sua inesistenza. Sopra, dove non c’era la neve, c’era lo stesso villaggio, il castello si scopriva non essere un castello, ma una cittadina, senza monumenti e senza importanza. Il Castello Utveggio, col suo riposante colore rosa, non si presta alla filosofia. Era un luogo di affari riservati non differente dai luoghi che stavano al livello della terra palermitana, dove ogni carabiniere aveva il suo confidente mafioso e ogni mafioso sapeva in anticipo se sarebbero venuti i carabinieri a casa sua. E in quell’andirivieni di notizie, di cacciatori cacciati, di dissimulazioni ognuno portava a casa i piccioli. Ogni tanto qualcuno restava sul terreno...

Ma mi sono rimasti dei dubbi: perché due capimafia telefonarono al Castello?
Allora, da detective dilettante, ho fatto delle supposizioni, partendo dalla strage di Capaci. C’era una montagnola, vi ricordate? su cui stavano i killer. Furono avvertiti che passava Giovanni Falcone e azionarono il telecomando per far esplodere i cento chili di tritolo depositati sotto l’autostrada. Il telecomando agisce con impulsi radio e viaggia alla velocità della luce, la deflagrazione è immediata, l’onda d’urto si propaga in basso. Chi sta in alto non viene colpito. La montagnola era a molte centinaia di distanza dall’autostrada.
Poi ho guardato le carte giudiziarie della strage di via D’Amelio, per cui quel Gaetano Scotto è stato condannato all’ergastolo ed è latitante. Nessuno ha saputo spiegare da dove potesse essere stato azionato il telecomando. Poi ho guardato il Castello a strapiombo su Palermo e in particolare la sua torretta posta nel giardino, una sorta di belvedere. Di qui a via D’Amelio, circa cinquecento metri sotto, non ci sono ostacoli alla vista. E un buon binocolo può vedere il momento in cui Paolo Borsellino scende dalla macchina e va a suonare il citofono della madre. Se un telecomando avesse agito dal Castello, non un’onda d’urto, ma neppure una brezza sarebbe arrivata fin lassù. Fantasie, naturalmente: anacronistiche e inopportune. ?